Febbraio 1632: «più tosto per sfogar la colera»

Alunni “incorreggibili” e incontri pericolosi…

Come si è visto in altre occasioni (cfr. Spigolature 2016), l’autunno del 1631 è un momento delicato per la storia del Collegio: nel clima di paura e sofferenza diffuso in tutta la regione dall’infierire della peste, dal pericolo di carestie, dalla morìa di animali, dall’incombere della guerra, si effettua il primo cambio al vertice dell’istituzione fondata da san Carlo, dopo 47 anni di gestione federiciana. La sfida, perfettamente colta da Carlo III Borromeo, che alla morte di Federico si trova a reggere il Collegio in attesa che il figlio Giberto (patrono designato) raggiunga l’età per farlo, è quella di mantenere inalterate, anzi di rinsaldare le condizioni di vita regolata degli alunni e di oculata amministrazione dei beni. Due punti su cui, nelle lunghe lettere al Rettore Greggio, il patrono-reggente insiste con molta decisione.
Si presenta, però, subito un piccolo inconveniente, che rischia di incrinare l’edificio disciplinare del Collegio: a causa di quelle che oggi chiameremmo condizioni meteorologiche avverse e del timore di contagi e altri pericoli, che rendevano sconsigliabile mettersi in viaggio verso la dimora del Patrono ad Arona, la consuetudine che gli alunni, specialmente quelli anziani, si presentassero al Patrono a inizio anno accademico viene sospesa. Dovranno e potranno più agevolmente presentarsi a Milano al Luogotenente Mascaro (figura chiave del complesso sistema di rapporti amministrativi tra Collegio di Pavia, Collegio Ambrosiano, famiglia Borromeo)¹.

Non tutti gli alunni, però, si adeguano – «Mi spiace infinitamente», scrive Carlo al Rettore, «che lei incominci a conoscere li mali effetti che necessariamente potevano succedere dal non presentarsi qui da noi questa prima volta li Collegiali vecchi» -, in particolare uno, Ambrogio Latuada, il cui ritratto “disturbante” si compone attraverso le parole del Greggio in una lettera dell’8 dicembre 1631:

Questo è venuto in Collegio senza presentarsi ad alcuno […] con una veste assai lunga, ma tagliata di dietro con li spalazzi molto grandi, quali con gran difficoltà ho fatto levare, tuttavia detta vesta non è per habito Collegiale, con un centurino di corame, qual non si può portare per essere habito laicale, l’ho avisato due volte, et fato avisare che levi detto centurino ha sempre promesso di farlo, però mai l’ha fatto et pare che burli, non studia, consuma la maggior parte del tempo a luoghi secreti, et è causa che altri perdino il tempo, beve assai, quando è avisato dal superiore piglia ogni cosa in mala parte, o si parte dal detto superiore brontolando, et strepitando; portava anelli in dito, sebene adesso non le porta, porta pianelle bianche, insomma ha più del laico, che del collegiale, et se si commincia in questo principio a tollerare queste cose, si passarà malamente […] Queste cose a me come persona privata poco importano, ma come a Rettore non so se si devono tollerare per il rispetto, quale perdo appresso agli altri, mi dà più fastidio questo solo che quasi tutti gli altri […] se ne va ai luoghi secreti, et là se ne sta le mezz’hore intiere dando trattenimento agli altri, nel principio quando venne cominciò a cacciarsi nelle camere d’altri.

La questione è, ovviamente, duplice: da un lato, sanzionare un comportamento generale e un modo di apparire non consoni al ruolo di alunno – i codici di abbigliamento erano importanti per comunicare determinati messaggi sociali, culturali, morali e come tali venivano regolamentati all’interno del Collegio -, dall’altro, scongiurare il pericolo di un “effetto emulazione” che avrebbe minato l’autorità del Rettore, emanazione diretta dell’istituzione.
Gli scambi epistolari tra Pavia e Arona sono così fitti che le lettere e relative risposte si accavallano. Ve ne sono due scritte dal Patrono nello stesso giorno (11 dicembre 1631), in risposta a comunicazioni spedite in data diversa ma ricevute insieme del Greggio: se in un primo momento, informato più genericamente sulle intemperanze del Latuada, Carlo ne ordina l’immediato ancorché temporaneo allontanamento dal Collegio – «subito facci partire il Latuada da cotesto mio Collegio, né lo metterà per l’avenire, se non con lettera nostra […] perché li costumi suoi che di nuovo ha dimostrato doppo il suo ritorno costì né sono decenti né proporzionati alla disciplina di cotesto pio luogo» -, la lettura del più dettagliato resoconto comportamentale è a tal punto sconcertante da rendere inammissibile alcun (improbabile) ravvedimento e possibilità di correzione:

io stimo necessario a dar questa mortifficatione al detto Latuada di farlo partire in questo modo, per il mal essempio che ha datto col suo procedere inconveniente siccome lei mi scrive […] non solo bisogna castigare questo Latuada, ma qualsivoglia altro, et d’ogni minima trasgressione, se lei vuole e haver buon Collegio, et dare principio al governo del Conte Giberto. Et delli diporti che egli mi dice del detto Latuada sono cose da forcha.

La pagina dedicata ad Ambrogio Latuada nel registro degli alunni riporta, in calce ai vari dati anagrafici, familiari, scolastici e relativi al suo ingresso in Collegio (nel giugno del 1629), una recisa annotazione: «E Collegio eiectus fuit de anno 1631 propter incorrigibilitatem».
La vicenda parrebbe chiusa, ma una sua coda, più sinistra, emerge tra le carte d’archivio, a distanza di qualche mese.
In una lettera del 14 febbraio 1632 il Rettore Greggio narra al Patrono un fatto capitatogli qualche giorno prima. Mentre camminava per Milano dopo essere rientrato da Arona, andando «da Porta Orientale verso il Duomo per contro alla contrada di San Raffaele», si imbatte nel Latuada:

qual per essere breve di vista non so se mi vedesse, doppo il mio servitore lo salutò, et egli alzò la voce, dicendo queste formali parole qual io stesso sentii: Se m’incontrarò in quel becco io voglio cacciargli di questa spada nei fianchi; dimandai dal servitore se diceva queste parole contra di me, et mi rispose che non sapeva, et per questo io non vi feci altro capitale, ma adesso havendo vista l’inclusa scrittami nel modo qual VS Illustrissima vedrà, mi vado confirmando che dicesse a me. 

L’impressione di uno sfiorato pericolo, sia personale, sia istituzionale – «se il Rettore non potrà fare liberamente il suo ufficio, la disciplina di questo Collegio non potrà stare come è stata per il passato, et se il Rettore non potrà tenere a freno li scolari delinquenti con il timere di questi incontri, non so come passerà il Collegio» – è corroborata da una lettera acclusa, indirizzata proprio dal Latuada al Rettore il 2 febbraio 1632. Nonostante la scrittura minuta e ordinata, i toni sono tutt’altro che pacati:

Desideravo sommamente di abbocarmi con la persona vostra per discorere qui in Milano (per dove intendo sete passato) alla longa, più tosto per sfogar la colera, che per la voluntà che havessi di vedervi.. Ringratio il Signore di non essermi incontrato né parlato con voi, perché non so se me fuse potuto tratenere, alla ricordanza di quello che havete operato per la total esclusione mia dal Collegio.

L’avversione nei confronti dell’antico superiore assume tutte le sfumature del risentimento, della rabbia e del disprezzo, che mescola alla vicenda personale di orgoglio ferito questioni di rango e morale sociale e conduce all’insulto:

[…] una calunnia troppo infame, et una persecutione troppo straordinaria causata da odio immortale che portate a Gentilhuomini, i quali sono sempre stati invidiati da chi è ignobile di nascita e molto più di perfidia. Non è però meraviglia, perché sì come il sangue contaminato et putrido in un corpo causa malatie et morbi incurabili, così anchora un rozzo plebeo et mal nato in un luogo di quiete apporta se non disturbo, et cagiona se non ruina. Et se bene dubitassi sempre che dal mal procedere et dalla rusticità di voi tutti ne dovesse nascere scandali di conseguenza, nondimeno perché l’effetto d’un buono è sempre pensar bene d’un cattivo, et l’effetto d’un cattivo è sempre pensar male d’un buono, non haverei mai pensato  non che stimato per certo che l’odio vostro si dovesse estendere a macchia tanto grande quanto è questa della reputatione. È cosa usitata che un huomo macchi l’honor d’altri, et più usitata che lo macchi con causa et con verità, ma che uno lo sporchi et contamini con immunditia d’infamia a torto persuadendosi che l’habito sacerdotale debba far havere maggior fede da chi devono essere ponderate le qualità de nobili, è cosa che non ha dell’humano ma bensì del Diabolico. A voi ricordo li danni et il pregiuditio che havete portato alla mia fama […] 

Affiora in chiusura, tra le pieghe cupe della retorica moralista, la stridula nota di una velata minaccia travestita da maledizione:

Restatevi dunque con quello che vi desidero, et vivete con più cautezza di quello sete vissuto sin hora, perché vi annontio quei mali che meritano le vostre indegnità, con speranza di vederne in breve dalla potente mano di Dio castighi tali quali richiedano le vostre qualità.

¹ Alla ricostruzione dell’operato delle varie figure istituzionali negli anni di patronato di Federico Borromeo e immediatamente successivi è dedicata la tesi di Laurea magistrale di Luisella Lunghi presso l’Università degli Studi di Pavia (Dipartimento di Studi umanistici, relatore Prof. A. Ferraresi, A.A. 2015-2016), dal titolo: Il Collegio Borromeo: istituzioni e figure di governo nei primi trent’anni del Seicento.

CZLaskaris